Mer. Apr 24th, 2024

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Il direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri elenca cinque ragioni per essere ottimisti e tre motivi di preoccupazione sull’evoluzione del Covid

Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e professore per «chiara fama» di Nefrologia all’Università degli Studi di Milano, sembra che non possiamo ancora mettere la parola «fine» alla storia della pandemia.

Siamo almeno arrivati agli ultimi capitoli?

«Abbiamo cinque ragioni per essere ottimisti e tre motivi di preoccupazione. La prima fonte di speranza viene da un passato lontano: nel 1889, a San Pietroburgo, è scoppiata quella che è stata chiamata “influenza russa”, una vera e propria pandemia diffusa in tutto il mondo, con un milione di morti accertati. Non è stato sottolineato abbastanza che le similitudini con la situazione attuale sono notevoli: il presunto responsabile è un coronavirus (OC43), l’infezione provocava una polmonite severa e uccideva soprattutto gli anziani. Pur senza vaccini e farmaci a contrastarlo, il virus è rimasto aggressivo per alcuni anni (e tre ondate) per poi “spegnersi”. Le autorità sanitarie raccomandavano ventilazione e disinfezione deli ambienti, distanziamento, isolamento degli infetti. Tutte le attività, incluse le scuole, sono state chiuse. Il confronto con Sars-CoV-2 è impressionante. OC43 circola ancora ed è uno dei tanti patogeni del raffreddore. Possiamo sperare che sia questo il finale della storia. Ma non avverrà domani».

Quali altri fattori possono suggerire un miglioramento della situazione?

«Secondo il Global burden of disease (Gbd), programma internazionale che valuta l’impatto delle principali malattie a livello di mortalità e disabilità, in Italia un picco di contagi, ricoveri e morti per Covid si è verificato tra gennaio e febbraio di quest’anno, seguito da un calo e una piccola ripresa. Una discesa più significativa dovrebbe cominciare a metà aprile per poi proseguire fino a luglio, anche grazie alla bella stagione. Le previsioni del Gbd, messe a punto però prima dell’avvento di Omicron BA.2, indicano zero casi di Covid in Italia tra giugno e agosto. Una prospettiva importante, anche se abbiamo imparato che questo virus ci può riservare molte sorprese. Ci sono poi altri tre elementi a nostro favore. Il primo è che la popolazione è quasi completamente infettata o vaccinata e quindi esiste un’immunità diffusa che ci consente di affrontare eventuali nuove mutazioni con una base protettiva che non avevamo nel 2020. Il secondo è che Omicron, nonostante l’elevatissima capacità di diffusione, tende a localizzarsi generalmente nella parte alta delle vie respiratorie, risparmiando bronchi e polmoni. Infine, questione cruciale, oggi abbiamo non solo i vaccini, ma anche antivirali e anticorpi monoclonali. Le industrie farmaceutiche stanno lavorando a farmaci che siano in grado di contrastare le possibili varianti di Sars-CoV-2. E c’è la prospettiva di un vaccino che copra tutti i coronavirus: un progetto della Duke University di Brigham e del Women’s Hospital di Boston che nelle scimmie ha mostrato un’efficacia vicina al 100%».

Quali sono invece i motivi di preoccupazione?

«In primo luogo quello che sta accadendo a Hong Kong: un’ondata pesantissima che dimostra in modo inequivocabile come Omicron non sia poco pericolosa in una popolazione, soprattutto anziana, poco vaccinata. Solo il ciclo completo con tre dosi ci può proteggere da questa e altre varianti. In Italia abbiamo un milione e 200 mila over 70 che non hanno completato il ciclo vaccinale: un grosso serbatoio di circolazione per il virus, a cui si aggiunge la fascia tra i 5 e i 12 anni dove la copertura è ferma al 34% e quelli più piccoli per i quali non esiste ancora un vaccino. Senza dimenticare che in Paesi a noi vicini, come quelli africani, le percentuali di vaccinazione sono bassissime».

La comparsa della variante XE ci deve preoccupare?

«Sì, perché si tratta di una variante ricombinante, ovvero che ha unito in sé parti di Omicron BA.1 e di Omicron BA.2. Al contrario di altri ceppi ricombinanti, come Xd e Xf (mix tra Delta e Omicron), che non hanno grande diffusione, Xe sta prendendo piede in Inghilterra (dove l’attività di sequenziamento è molto intensa) e ci aspettiamo che possa essere già presente anche in Italia».

Come nascono questi mix?

«È possibile che un soggetto sia stato infettato contemporaneamente da due varianti diverse e che i virus, durante la replicazione, abbiano subito un mescolamento del materiale genetico. Se la variante ricombinante ha un vantaggio evolutivo nella capacità di trasmissione diventerà predominante rispetto alle precedenti ed è quello che potrebbe succedere con Xe. L’unica arma di difesa che abbiamo è potenziare i sistemi di sequenziamento per non farci cogliere impreparati. Ricordiamo però che, quando “vediamo” qualcosa, è perché la diffusione è già iniziata».

La pressione sul sistema sanitario si mantiene stabile. È un buon segno?

«In realtà su questo punto abbiamo un grosso problema ed è il terzo motivo di preoccupazione. Tra il 5 e il 10% dei pazienti guariti da Covid presenta sequele di vario genere, una condizione erroneamente definita “Long Covid”: abbiamo quindi una platea di persone che non sono né malate né sane e che peseranno nei prossimi anni sul sistema sanitario. C’è però una buona notizia: secondo gli ultimi studi, citati in un editoriale su Nature , la vaccinazione con tre dosi riduce del 50% il rischio di complicanze nel lungo periodo dopo l’infezione».

Le mascherine ci proteggono ancora?

«Sì, è fondamentale mantenere questo semplice presidio di sicurezza, considerando che lo scenario è in forte evoluzione».

6 aprile 2022 (modifica il 6 aprile 2022 | 07:45)

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